A sud del Teatro/1. Personale di Saverio La Ruina a Bologna

Tre spettacoli ai Laboratori delle Arti de La Soffitta, dal 13 al 15 marzo

13 marzo 2018

Un’immersione nel teatro di Saverio La Ruina, grande interprete vincitore del premio Ubu 2012 come miglior attore, è quanto ci offre A Sud del Teatro/1, progetto della cura di Gerardo Guccini nell’ambito della stagione La Soffitta. Per La Ruina, nato a Castrovillari dove ha fondato nel 1999 Primavera dei Teatri, un festival dei nuovi linguaggi della scena contemporanea, si tratta di un ritorno nella città dove si è formato come attore alla Scuola di teatro di Bologna per poi fondare nel 1992  la compagnia Scena Verticale.
Quella dedicata all’attore, autore e regista è la prima di tre personali che riguardano realtà appartenenti a un Sud del teatro inteso come “una regione antropologica dove proliferano parlate, identità e culture che alimentano intensi meticciati fra passato e presente, dialetti e italiano, dimensione performativa e dimensione individuale”.

Sono tre gli spettacoli, scritti e interpretati da La Ruina, che potremo vedere in questi giorni ai Laboratori delle Arti de La Soffitta: Masculu e fìammina, martedì 13 marzo, ore 21; Polvere. Dialogo fra uomo e donna, mercoledì 14 marzo, ore 21; Dissonorata, giovedì 15 marzo, ore 21.

Masculu e fìammina, il più recente dei tre, è un coraggioso racconto della perdita (di un uomo a cui l’amore è stato strappato via più volte), perdita appesantita dall’omofobia del contesto, visto che qui vengono narrati amori omosessuali, ammantati di segreti e mille complicazioni e bersagliati dall’esterno di pregiudizi e rifiuti. Quello dell’artista calabrese è un monologo, anzi un dialogo per voce sola, una confessione alla madre morta di cui egli immagina pensieri e risposte, mentre si confida con lei andandola a trovare al cimitero e raccontandole frammenti di vita, incontri, amicizie, amori, luoghi, ricorrenze, dispiaceri, momenti felici e momenti di svolta più significativi, emozioni intrise di inquietudini, confusione, sospetti, certezze.
Le scene sono di Cristina Ipsaro e Riccardo De Leo, illuminate in modo sapiente da Mario Giordano e Dario De Luca e accompagnate dalle musiche originali di Gianfranco De Franco. In mezzo a una manciata di elementi scenici che evocano un cimitero – un seggio, un fiore, una lapide, una foto – collocati in uno spazio bianco di neve, viene dunque a galla un’intera vita, ricordi belli e ricordi dolenti, toccanti ma non privi di leggerezza e ironia, in un flusso ininterrotto di parole nella lingua dell’autore e attore della pièce, il dialetto calabrese, che chiede un’accoglienza empatica più che una decodificazione, specialmente quando i suoni pietrosi della lingua si sbriciolano in sospiri sostenuti da piccoli gesti eloquenti, commossi e commoventi.

In Polvere. Dialogo fra uomo e donna, la lingua non è più il dialetto calabro-lucano ma un limpido italiano, lingua, non già dell’oppressione subita, ma dell’oppressione lucidamente e crudelmente esercitata dall’uomo sulla donna, lo spettacolo è un dialogo al metronomo dove le dinamiche di potere uomo-donna vengono letteralmente vivisezionate. “Le percosse – scrive La Ruina – sono la parte più fisica del rapporto violento di coppia; l’uccisione della donna è la parte conclusiva. Ma c’è un prima, immateriale e impalpabile, una polvere evanescente che si solleva piano intorno alla donna, la circonda, la avvolge, ne mina le certezze, ne annienta la forza, il coraggio, spegne il sorriso e la capacità di sognare. Una polvere opaca fatta di parole che umiliano e feriscono, di piccoli sgarbi, di riconoscimenti mancati, di affetto sbrigativo”. In scena con La Ruina è Cecilia Foti, anche aiuto regista.

Dissonorata è la storia di Pascalina, una ragazza del Sud in un dopoguerra devastato dalla fame e dall’ignoranza. La storia è una piccola storia: un matrimonio sognato, l’attesa che la sorella più grande, che nessuno sembra volere,  si sposi, la paura che l’uomo, scelto come usava dal padre, si stanchi, il cedere alle lusinghe, l’attesa di un bimbo, il tentativo dei famigliari di ucciderla col fuoco perché disonorata. In Dissonorata, racconta La Ruina, “c’è il desiderio di dare una lingua (nella fattispecie il dialetto calabro-lucano della zona del Pollino) a una figura emarginata di donna. Altri autori hanno già dato voce a personaggi umili, poveri, emarginati. Nel mio caso si è trattato di dare voce a chi ha difficoltà anche con la parola. Non ho cercato solo di creare una tensione narrativa attraverso la successione serrata dei fatti. Per quanto mi è stato possibile ho cercato di creare un flusso sonoro, un andamento musicale, ricco di assonanze e ripetizioni, ma sempre nell’ambito di una comunicazione molto concreta, l’unica di cui questo personaggio è capace. Un flusso sonoro che potesse restituire le sfumature del suo carattere e i moti segreti del suo animo, ma anche la sua capacità di ammaliarti, di trascinarti nelle spire del racconto, di tenerti in ascolto all’infinito, capacità che hanno queste donne del sud”.