Addio a Ezio Bosso, l’artista che con la musica ci ha svelato la vita

È morto a Bologna il pianista, compositore e direttore d’orchestra

15 maggio 2020

È stato un grande maestro Ezio Bosso, di quelli che a ogni passo e in ogni azione sanno distillare una saggezza antica e leggera riportando l’arte là dove dovrebbe sempre stare, fuori dalla retorica e nella vita concreta, come bisogno primario dell’uomo, al pari del respiro e dell’acqua. Nella sua ultima intervista apparsa solo qualche giorno fa su Rainews 24, lo aveva ribadito ancora una volta: la musica è una necessità perché non strilla, perché nel suo sussurrare ci svela la vita.

Musicista, pianista, direttore d’orchestra e compositore torinese classe 1971, Bosso è stato tra gli artisti più influenti della sua generazione, fin dagli anni della formazione all’Accademia di Vienna e dei primi concerti da solista e con le grandi orchestre europee. Dal 1985 al 1988 ha fatto parte della band Statuto come bassista ma non ha mai messo da parte la sua passione per la musica classica. E così negli anni Novanta ha scritto, diretto e insegnato moltissimo, si è esibito come solista e come direttore in concerti in giro per il mondo e la sua musica è stata commissionata o utilizzata da istituzioni operistiche di enorme prestigio, come pure da coreografi e da registi cinematografici. Suo anche l’inno ufficiale della Magna Charta delle Università Europee che l’Alma Mater di Bologna gli ha commissionato nel 2015.

La sua fama, già applaudita e pluripremiata negli ambienti artistici e musicali, ha raggiunto un pubblico ancora più vasto quando nel 2016, durante la seconda serata di Sanremo, ha suonato sul palcoscenico dell’Ariston Following a bird, un brano estratto dal suo primo disco da solista intitolato The 12th Room. “La vita è fatta di dodici stanze, aveva raccontato durante un’emozionante intervista sul palco sanremese – nell’ultima, che non è l’ultima, perché è quella in cui si cambia, ricordiamo la prima. Quando nasciamo non la possiamo ricordare, perché non possiamo ancora ricordare, ma lì la ricordiamo, e siamo pronti a ricominciare e quindi siamo liberi”.

In quel momento Bosso era già costretto su una sedia a rotelle. Dal 2011 lottava con una malattia neurodegenerativa che non gli ha mai impedito di continuare ad allenare il suo talento, a suonare e a dirigere, almeno fino a settembre 2019 quando ha dovuto cessare l’attività di pianista perché l’uso delle dita era ormai compromesso. Ma non ha smesso di dirigere la sua orchestra, la Europe Philharmonic, con cui lo scorso gennaio aveva tenuto le ultime ultimi serate all’insegna di Beethoven e Strauss al Conservatorio di Milano per la Società dei Concerti. Poi sono arrivati il Coronavirus e il lockdown e anche lui ha dovuto ritirarsi nella sua casa di Bologna, dove non ha smesso di progettare il dopo e aspettava la fine dell’isolamento per tornare sul podio con i suoi musicisti. Non potrà farlo perché è morto oggi, 15 maggio 2020, a 48 anni.

Intorno alla sua figura è sorto negli anni un mito, un personaggio che lui stesso ha provato in ogni modo a frantumare. Non gli piacevano gli stereotipi, né quelli negativi né quelli positivi. Ha continuato a fare musica perché la musica era la sua vita, il suo punto di vista sul mondo, la sua battaglia politica e ne ha rivendicato fino all’ultimo la potenza a patto di rigore e disciplina. “C’è questa idea assurda del ‘basta metterci il cuore’ – aveva detto in una intervista a L’Espresso a settembre – : è una scusa: nelle cose non basta metterci il cuore, bisogna metterci impegno. A un musicista le mani devono funzionare, le note si devono poter fare tutte e bene. La perfezione importa eccome, nascondersi dietro l’imperfezione umana è una stupida scorciatoia; anche perché la missione è cercare sempre quella purezza che diventa trascendenza e trasfigurazione”. Ci piace ricordarlo così, per la sua capacità di riportare la musica al centro della vita di tutti senza piegarne le leggi alla stanca superficialità del presente.