Bidibibodibiboo. Intervista a Francesco Alberici

Il 26 giugno al Teatro Sociale di Gualtieri

25 giugno 2024

È uno spettacolo che parla di giovani e lavoro, Bidibibodibiboo, ma la riflessione di Francesco Alberici, attore, autore e regista classe 1988, Premio Ubu come performer under 35 nel 2021, si spinge molto oltre, sconfinando in una dimensione politica e sociologica che rintraccia nei grandi sistemi di produzione del tardo-capitalismo la radice di disagi psicologici complessi. Una condizione carica di implicazioni e ambiguità, che supera il tema d’attualità per andare più a fondo, nelle paure intime di svariate generazioni che si sono ritrovate a fare i conti con una società della prestazione sempre più subdola e più liquida, dove le relazioni personali si disgregano e il lavoro, anche nelle sue retoriche più (falsamente) progressiste, è molto spesso una trappola infernale che manipola la psiche e modella le esistenze. Dice già molto il titolo, ispirato all’opera omonima di Maurizio Cattelan, nella quale uno scoiattolino è riverso su un tavolo, in uno squallido interno casalingo anni ’50 e si è appena sparato un colpo alla testa. Quella immagine di fallimento corrisponde all’atmosfera in cui è ambientato il testo scritto da Alberici, arrivato anche in finale al Premio Riccione del 2021: due fratelli, uno è dipendente in una grande e nota multinazionale e, preso all’improvviso di mira da un superiore, inizia a vivere un incubo che terminerà col suo licenziamento. L’altro, che fa l’autore teatrale, decide di raccontare pubblicamente la vicenda del fratello, portandola in scena con non poche difficoltà. Dopo una tournée che ha fatto tappa con successo in sale importanti, come quella del Piccolo Teatro di Milano, il 26 giugno lo spettacolo andrà in scena al Teatro Sociale di Gualtieri. Ne abbiamo approfittato per intervistare l’autore.

In questo spettacolo dai temi e le atmosfere cupe, c’è uno spazio molto importante per l’ironia e il sarcasmo, come d’altronde in tutti i suoi lavori fino a oggi, sia da interprete che da autore e regista. Cosa aggiunge, o consente, l’umorismo, nella sua scrittura e nella sua performatività?
L’ironia è un modo di stare al mondo, connaturato ad alcuni. Un modo, forse istintivo, di guardare alla vita e di viverla. Ho sempre amato molto Kurt Vonnegut, che in Mattatoio n. 5 riesce a raccontare il bombardamento di Dresda trasformandolo in una sorta di strano romanzo sui viaggi nel tempo. L’ironia alla quale mi sento affine ha poco a che fare con la freddezza o con un disincantato nichilismo, è piuttosto uno sguardo delicato e commosso sulle cose della vita, che prova a dar conto delle gioie e delle sofferenze, delle sconfitte, delle ingiustizie e delle piccole vittorie che costellano le nostre esistenze. Non penso che l’ironia implichi un disimpegno o una qualche forma di leggerezza, credo anzi che sia una forma alta per raccontare le sofferenze senza morirne, una strategia di sopravvivenza. Nel caso di Bidibibodibiboo l’ironia mi ha permesso di raccontare una storia che mi ha riguardato da vicino allargando lo sguardo e trasformandola in una storia che non fosse più solo mia, ma di tutti.
Lei ha tradotto assieme a Silvia Gussoni i testi teorici di Milo Rau, curando una  pubblicazione su di lui. Come artista, sente in qualche modo di avere tratto un’eredità dal regista svizzero? E in quale aspetto invece si sente distante dal suo modo di fare teatro?
Milo Rau è uno di quegli artisti giganteschi che sono riusciti a segnare un prima e un dopo. Il suo teatro è rivoluzionario in molti aspetti: dall’interazione del video con la scena sino alla capacità di affiancare a un magistrale lavoro di documentazione un raffinato discorso sul vero e sul falso. Di fronte a un artista così complesso e potente il rischio di sterile emulazione è molto alto. Senza dubbio, almeno per quanto mi riguarda, è sempre utile e stimolante studiarlo e assistere ai suoi spettacoli. Ciò che più mi colpisce nella sua poetica è stato osservare quanto per lui sia determinante il ruolo politico dell’arte: nel manifesto programmatico che scrisse qualche anno fa, al primo punto si leggeva “non si tratta più di rappresentare il mondo, si tratta di cambiarlo”. Una boccata d’ossigeno rispetto alla sensazione di impotenza e inutilità che spesso gli artisti vivono. Tuttavia è proprio in questo aspetto che sento una distanza: io spero che l’arte riesca a indicare dei problemi, a suggerire delle domande, ma ho molti dubbi riguardo alla sua possibilità di cambiare la realtà. Anche se qualche speranza continuo a coltivarla.
Uno delle questioni centrali dello spettacolo è la difficoltà di mettere in scena una storia “vera”. Cosa intendeva segnalare al pubblico sul rapporto tra arte e verità?
Il rapporto tra realtà e arte, che è un’estensione di quello tra verità e finzione , mi sta particolarmente a cuore. Negli ultimi anni la dicitura “tratto da una storia vera” va molto di moda, sempre più l’arte cerca di afferrare la realtà raccontando storie “vere”, spesso col fine di portare alla luce situazioni difficili, marginali e cariche d’ingiustizia. Tuttavia da artista mi domando se i protagonisti reali di queste storie le avrebbero raccontate proprio in quel modo, se si rispecchiano nei racconti che li vedono coinvolti, se non li considerino a volte sminuenti o addirittura manipolatori. Nel mio spettacolo ci sono due fratelli, uno vive la storia – una vicenda aziendale di mobbing – e l’altro decide di raccontarla in teatro. Qual è lo scarto tra la vicenda reale e il racconto? Cosa si perde e cosa si guadagna?
Prossimamente assieme ad altri artisti e artiste condurrà Fumo negli occhi,  un corso di alta formazione per attori e attrici sul tema del “gaslighting”, una forma di manipolazione psicologica sempre più diffusa. Che relazione c’è con la riflessione aperta dal suo spettacolo?
Il gaslighting è una forma di manipolazione capace di indurre l’altro ad adottare il nostro punto di vista, inducendolo a credere che la realtà sia come la vediamo noi. In qualche modo il racconto è sempre manipolatorio, anche quando si professa obiettivo – si pensi al genere documentario. Infatti il racconto esprime un punto di vista, e lo spettatore è indotto a identificarsi in quel punto di vista. Mi interessa indagare la natura manipolatoria del racconto, capire quali sono i limiti di questa manipolazione (perché non diventi una distorsione vera e propria del reale) e capire in quali casi è necessario tener conto di questi limiti e in quali altri no.
I grandi autori sono proprio quelli mostrare nelle proprie storie più punti di vista, anche agli antipodi, facendo sì che il lettore ogni volta aderisca a ciascun punto di vista, come se quello fosse l’unico sensato e possibile.