- Data di pubblicazione
- 24/02/2023
- Ultima modifica
- 24/02/2023
Con Cesare Pavese tra memoria e oblio prima nazionale per La luna e i falò. Intervista a Luigi D'Elia
Anteprima nazionale al Teatro Laura Betti di Casalecchio il 25 febbraio
Ha portato in scena la stagione d’oro di Jack London, l’amore senza paura di Don Milani, storie di lupi e naufragi, racconti per le giovani generazioni. Ma Luigi D’Elia, autore, attore e scenografo ha indagato soprattutto il rapporto con la natura selvaggia, attraverso il teatro, e anche con pubblicazioni e progetti di forestazione partecipata, collaborando stabilmente con un altro autore, Francesco Niccolini.
Adesso lo sguardo dell’artista pugliese fa un’altra deviazione, spostando il fuoco sull’umano, sulla memoria, sulla ricerca interiore. E lo fa rileggendo uno dei più grandi scrittori novecenteschi, Cesare Pavese. Al suo ultimo romanzo, La luna e i falò, grande capolavoro del secolo scorso, s’ispira infatti La luna e i falò. Time never dies, la prima vera opera come autore di D’Elia, che s’interroga attraverso le celeberrime pagine di Pavese su alcuni temi fondi dell’esistenza. “E se avessimo sbagliato tutto? Se la memoria avesse bisogno di essere cantata in un altro modo intorno al quale non ci siamo mai realmente interrogati? E se invece fosse l’oblio a portare la luce? E un paese ci vuole davvero?” Da queste domande parte la riscrittura scenica di e con D’Elia, per la regia di Roberto Aldorasi. In occasione della prima nazionale al Teatro Comunale Laura Betti di Casalecchio di Reno, sabato 25 febbraio alle ore 21, abbiamo posto alcune domande all’autore.
Dalla natura selvaggia al cuore dell’umano. Come è nato questo ponte nella sua scrittura?
Non credo ci sia separazione. Quello che batte nel cuore umano è la stessa identica “materia” che batte nel cuore di un lupo o della foresta. La materia è la stessa. Forse è accaduto solo uno spostamento, come allargare l’inquadratura e includere l’umano e le sue forme, le sue danze. E in fondo anche raccontare la natura per me è sempre stato raccontare la natura che mi porto dentro.
Com’è arrivato a Cesare Pavese?
Da un innamoramento adolescenziale. Ho passato con lui tantissimo tempo. L’ho divorato tanti anni fa. Allora non sospettavo minimamente che mi sarei occupato di teatro o letteratura e poco tempo fa, quando abbiamo deciso di lavorarci, ho capito quanto la sua prosa e il suo modo di scrivere per impressioni, inciampi mi abbia formato. Non lo sapevo e mi stava formando come narratore. E ora eccoci uno di fronte all’altro da adulti.
La sua riscrittura è un incontro o uno scontro con La luna e i falò?
Un “incontro” sicuramente. Uno scontro se c’è è con la versione “partigiana”, come ci siamo detti più volte con Roberto Aldorasi, che ne abbiamo fatto del romanzo. Come se ci fossimo fermati ad un uso per etichette di questo romanzo senza interrogarci davvero su quello che Pavese ci stava mostrando.
Nel romanzo sentiamo in primo piano la voce del protagonista ma tanti altri personaggi entrano in relazione con lui. Dobbiamo aspettarci qualcosa di simile dal suo spettacolo? Vedremo in qualche modo il suo “paese” in scena?
Il paese resta sullo sfondo. Il fuoco si concentra su quattro personaggi: Anguilla, Nuto, Cinto e Silvia. Forse Silvia sta per l’amore. Lei è presente anche se è l’unica assente dal piano del qui e ora, eppure è l’accordo di tanti passaggi e della ricerca continua di Anguilla. Il paese urla di rancori sullo sfondo, a volte morde e compare in primo piano ma il fuoco e su questo triangolo. Cinto risetto al romanzo prende molto più spazio. Credo sia lui a muovere davvero i fili della storia. Gli altri sono nella corrente. Poco tempo fa per semplificare una visione sul mio quaderno di lavoro ho scritto così: ci siamo io, Nuto e Cinto.