La fragilità come forma di conoscenza. In scena a Bologna “Cari spettatori” di Danio Manfredini 

26 novembre 2025

Due ex pazienti psichiatrici sospesi tra desideri di normalità e slanci visionari. Le loro storie, rimaste in un cassetto come appunti sparsi per anni, tornano per chiedere di essere ascoltate. Dal 26 al 30 novembre (nell’ambito del Focus Carne) Danio Manfredini, figura di spicco del teatro contemporaneo, arriva all’Arena del Sole di Bologna con Cari spettatori, uno spettacolo che affonda le radici in materiali raccolti nell’arco di quasi trent’anni e che oggi diventano un ritratto intimo, fragile e profondamente umano del mondo della salute mentale. 

Autore, regista, attore, cantante e pittore, Manfredini è uno degli artisti che maggiormente hanno segnato la scena italiana dagli anni Ottanta a oggi. Figura appartata eppure centrale, capace di attraversare linguaggi diversi mantenendo una coerenza poetica rara, è parte della comunità degli artisti di casa ERT/Teatro Nazionale, con cui condivide sguardi e progettualità. Proprio in occasione delle repliche bolognesi, ERT presenta infatti una mostra dedicata alle tele e ai disegni realizzati da Manfredini negli anni: materiali preparatori allo spettacolo e appunti per la sceneggiatura di Divine, opera che il Nazionale rimetterà in produzione e che sarà in scena al Teatro delle Moline dal 12 al 22 marzo. 

Cari spettatori affida la scena a due attori da tempo vicini a Manfredini, Vincenzo Del Prete e Giuseppe Semeraro, che interpretano Arturo e Gino, due ex pazienti psichiatrici appena usciti da una comunità. Vivono insieme in un appartamento della Caritas, uno spazio minimo in cui il passato continua a risuonare attraverso i video della comunità da cui provengono: voci registrate, ricordi e frammenti che riportano alla luce gesti e memorie lontane. Arturo e Gino trascorrono le giornate tra brevi uscite per le sigarette o la spesa, litigi improvvisi, momenti di solidarietà inattesa. Arturo cerca una normalità semplice, un lavoro, una casa popolare, una vita che possa assomigliare a quella degli altri. Gino, al contrario, aspira a scrivere un grande copione sul destino del mondo: la rivoluzione, la minaccia atomica, la fede, la vertigine della tecnologia. Per lui il teatro è un varco attraverso cui sublimare la sofferenza e immaginare un riscatto. 

L’intreccio nasce appunto da materiali che Manfredini ha raccolto in momenti diversi della sua vita artistica. “Nel 1997 un paziente della comunità psichiatrica si propose di dettarmi un copione diviso in più tempi teatrali”, racconta. “Nel 2010 un altro paziente mi diede una serie di dvd che riprendevano diversi momenti di vita in comunità”. Per anni queste testimonianze sono rimaste in attesa, conservate come un’eredità affettiva e creativa. Oggi diventano la trama sotterranea di uno spettacolo che non vuole imitare la realtà, ma restituire la sua vibrazione: l’inquietudine, la rabbia, la malinconia, il potenziale inespresso di chi vive ai margini. 

La dimensione autobiografica di Manfredini, il suo lungo lavoro con i pazienti psichiatrici e la sua attenzione alla fragilità come condizione umana ed estetica, emergono anche nel modo in cui la parola viene trattata: non come testo fisso, ma come flusso, gesto, memoria. Cari spettatori diventa così un ringraziamento esplicito a chi ha ispirato la sua ricerca, un modo per riconoscere in quelle vite marginali una forza generativa per il teatro.

Nella sua carriera Manfredini ha attraversato spettacoli che hanno segnato un’epoca. Da Miracolo della rosa (Premio Speciale Ubu 1989) a Tre studi per una crocifissione, da Al presente (Premio Ubu miglior attore 1999) ai lavori corali come Cinema Cielo (Premio Ubu miglior regia 2004) e Il sacro segno dei mostri, fino alla musica dei suoi album Incisioni e Vivere per niente. Nel 2023 ha ricevuto il Premio Ubu alla Carriera, a conferma di un percorso che ha saputo intrecciare rigore formale e vulnerabilità emotiva, fuori dai grandi circuiti e dalle logiche del consenso.  Con Cari spettatori, l’artista offre al pubblico bolognese un nuovo tassello della sua poetica: un invito a considerare la fragilità come una forma di conoscenza, un modo per avvicinarsi all’altro senza giudizio, restituendo voce a ciò che spesso resta in ombra.