- Data di pubblicazione
- 16/04/2020
- Ultima modifica
- 16/04/2020
#laculturanonsiferma. Nel buio feroce di Pippo Delbono
La prima puntata dello Speciale il 16 aprile alle 21:25
“Vedere sempre più fiori rossi che continuano a spuntare dalla carne sempre più ferita di un Paese in guerra da molti anni”. Significa questo per Pippo Delbono continuare ostinatamente a parlare d’amore anche (e soprattutto) quando la morte incombe. Il Paese in guerra è lui, il suo corpo affetto da AIDS, e dal momento che come diceva Antonin Artaud per certi artisti è inimmaginabile fare uno spettacolo che non si contamini con la vita, la malattia è argomento più che mai presente nelle opere del regista genovese, che in certi spettacoli ha posto al centro proprio il suo rapporto con la morte, senza tanti giri di parole. È il caso di Questo buio feroce, lavoro con cui il 16 aprile si apre lo Speciale dedicato dal cartellone #laculturanonsiferma al regista di casa ERT. Il titolo dello spettacolo, co-prodotto nel 2006 da ERT Fondazione con il Teatro di Roma, il Festival delle Colline Torinesi e un nutrito gruppo di soggetti francesi, arriva da un libro autobiografico dello scrittore e giornalista americano Harold Brodkey (anch’egli malato di AIDS), incontrato per caso – racconta il regista – “in uno scaffale di una piccola libreria in un paese senza libri”. In quel libro abbandonato, scritto in italiano, Pippo Delbono ha ritrovato anche il suo di viaggio, la sua storia. Ed è nato così uno spettacolo spiazzante, concreto e astratto allo stesso tempo, come tutti i suoi lavori, che precipitano il pubblico dentro la sua mente, tra le analogie, le connessioni, la poesia che lega morte e desiderio, fiori e precipizi, disperazione e coraggio. Al centro, appunto, la morte: non solo nel suo valore occidentale, come paura e perdita e pensiero da bandire, ma come coscienza lucida e profonda del vivere. In una stanza bianca (le scene sono di Claude Santerre e le luci di Robert John Resteghini) dove alla sua voce delicata e straziante fanno da controcanto disperanti silenzi, sfilano uno dopo l’altro i suoi tanti attori: Dolly Albertin, Gianluca Ballarè, Raffaella Banchelli, Bobò, Lucia Della Ferrera, Ilaria Distante, Gustavo Giacosa, Simone Goggiano, Mario Intruglio, Nelson Lariccia, Julia Morawietz, Gianni Parenti e Pepe Robledo. Sono vestiti in abiti rococò o con maschere tribali. Apparizioni, processioni. Come in un rito sacro che deve tutto al teatro stesso, all’arte che consente giochi segreti con la vita. Quelle figure straordinarie non hanno nulla di concreto, infatti, ma appaiono nello spazio bianco come simboli, come compagni di strada, per accompagnare Pippo nella sua rincorsa verso la luce. Parole e danza diventano così “una breccia feroce di luce come i tagli di luce nei drammatici visi del Caravaggio”, scriveva il regista nelle sue note. Un modo per “rompere i muri con un grido che squarcia la tela come nei quadri di Frida Kahlo, la pittrice messicana che dipingeva la sua carne ferita. O i corpi grassi dei torturati nei dipinti del colombiano Botero. Dilaniati”. Lo spettacolo, trasmesso come sempre su Lepida Tv ed Emilia Romagna Creativa, è il primo di quattro opere in programma nei giorni successivi, di cui vi racconteremo prossimamente su queste pagine.