Una riga nera al piano di sopra. Intervista a Matilde Vigna

Il 26 novembre al Teatro Alice Zeppilli di Pieve di Cento

22 novembre 2022

Alla sua prima prova come autrice Matilde Vigna ha già conquistato una prestigiosa candidatura ai Premi Ubu per il miglior nuovo testo italiano. Oltre a confermarsi straordinaria attrice apprezzata e ricercata dai principali registi della scena contemporanea, da Valter Malosti ad Antonio Latella, da Leonardo Lidi a Michele Di Mauro a Liv Ferracchiati (e d’altronde ha già vinto un Premio Ubu come migliore attrice under 35 nel 2019, e il Premio Duse come attrice emergente nel 2021), con Una riga nera al piano di sopra, produzione ERT, si è rivelata anche un’ottima drammaturga.

Il testo, un monologo da lei scritto, diretto e interpretato, ha il raro pregio di parlare al cuore delle nuove generazioni, quelle sempre in viaggio, con la valigia pronta, perennemente alla ricerca del proprio posto nel mondo. Nel racconto s’intrecciano infatti due storie: la sua, quella di giovane donna di oggi alle prese con viaggi continui, più o meno volontari, e separazioni, traslochi e mutui, con quella di sua nonna, che visse la tragedia dell’alluvione del Polesine del 1951 che strappò la gente alle proprie case, costringendola a uno sradicamento non voluto e molto doloroso.

La relazione tra passato e presente, tra due vite così diverse eppure così simili, dà vita a uno spettacolo emozionante e autenticamente contemporaneo. Chi lo ha perso a Bologna, può recuperare il 26 novembre alle 21 al Teatro Alice Zeppilli di Pieve di Cento, dove andrà in scena nell’ambito della Stagione Agorà. Ne abbiamo approfittato per fare qualche domanda all’attrice e drammaturga.

 


Cosa racconta il titolo? Cos’è la riga nera di cui parla?
La riga nera al piano di sopra è “quello che resta”. Nella realtà è il segno del livello raggiunto dalle acque che riemerge anche dopo mani e mani di colore. Ma nella storia che racconto rappresenta anche il segno metaforico che le esperienze traumatiche lasciano nella memoria di ciascuno di noi.

 

La questione generazionale sembra centrale. Cosa tenta di recuperare la giovane nipote dalla storia di sradicamento della nonna?
Sono due sradicamenti a confronto. Mi sono interrogata su cosa significasse “perdere tutto” nel 2021, e se questo fosse infine possibile, per me che sono nata nel lato fortunato del mondo e ho una famiglia alle spalle. Quindi la mia protagonista trentenne sceglie, coscientemente, in questo ennesimo trasloco, di portarsi via tutto, un “tutto” fatto di grandi inutilità.
Dall’altro lato c’è la tragedia dell’alluvione del 1951, in una delle zone più depresse dell’Italia del dopoguerra. E quando l’acqua all’improvviso ti arriva in casa di notte, non hai tempo di scegliere cosa portare via. Ma anche potendo scegliere forse, c’era ben poco… Eppure quel poco era tutto, e molti sono rimasti per salvarlo, rischiando la vita. Quindi forse la giovane protagonista cerca di recuperare, a modo suo, un senso di cosa sia davvero essenziale. Cosa resta, dopo che tutto è stato spazzato via?
Quali autori, autrici, scritture ti hanno influenzata in questa scrittura?
Mi accorgo, col senno di poi, che ci sono molte influenze “non coscienti” in questo mio lavoro. E questo mi affascina.
Sicuramente c’è il teatro di narrazione, il “Vajont” di Marco Paolini, ma anche e soprattutto “L’abisso” di Davide Enia.
Allo stesso tempo ci vedo molto anche la scrittura di Lucia Calamaro, con le sue indagini tragicomiche sulla profondità dell’umano.
Senz’altro c’è anche l’influenza della stand-up comedy, passatami da Greta Cappelletti che ha collaborato come dramaturg, ma pure Torquato Tasso (sulla cui Aminta ho lavorato con Antonio Latella) da cui mi è rimasta la fascinazione per la metrica (le parti relative al Polesine sono scritte in versi).
Vedremo altre prove di drammaturgia?

Sto lavorando ad un secondo capitolo sulla perdita, il tema ancora non è concluso per me (lo sarà mai?).