- Data di pubblicazione
- 11/10/2022
- Ultima modifica
- 11/10/2022
La storia di "noi". Marco D'Agostin racconta Gli Anni in scena a Vie Festival
All'Arena del Sole il 14 e 15 ottobre
Dopo First Love, storia di un ragazzino degli anni ’90 al quale non piaceva il calcio ma era innamorato della campionessa piemontese di sci di fondo Stefania Belmondo, e dopo Best Regards, spettacolo-lettera rivolta al performer e coreografo Nigel Charnock, Marco D’Agostin continua il suo viaggio creativo tra danza, parola e biografia con un nuovo lavoro in scena all’Arena del Sole il 14 e 15 ottobre per Vie Festival.
Stavolta però c’è un elemento del tutto nuovo: il racconto biografico è affidato alla danzatrice Marta Ciappina, fuoriclasse della danza italiana contemporanea. Due dei più vividi talenti della scena e dell’universo coreografico, insomma, si uniscono per dare vita a un lavoro ispirato, anche nel titolo, Gli Anni, a uno dei più importanti romanzi della scrittrice francese Annie Ernaux, alla quale proprio qualche giorno fa è stato assegnato il Premio Nobel per la letteratura. Il titolo, però, rimanda anche al celebre singolo degli 883, pubblicato negli anni ’90. Come sempre nei lavori di D’Agostin, afflato sentimentale, letteratura e universo pop si uniscono in un affresco che non è solo personale, ma pienamente generazionale. Ne abbiamo parlato con l’autore.
Abbiamo sete di storie, desiderio di ricomporre immaginari “altri”, meno omologati. Che storia ci racconti in GLI ANNI? la storia di un “noi”? la storia di una individualità speciale?
MD’A – Non è trascorso nemmeno un giorno, nel processo di lavoro per questo spettacolo, in cui io e Marta non ci siamo detti che avremmo voluto scrivere la storia di tutti. Di tutti chi, però? La risposta che ho provato a dare è questa: di tutti quegli spettatori che, quando vestono i panni del lettore di un romanzo, sfogliano le pagine cercando qualcosa di loro stessi nei personaggi più lontani dalle loro caratteristiche e dalle loro vita. GLI ANNI è costruito a partire dall’incandescente biografia di un singolo – quella di Marta -, considerata come una materia sentimentale. La sua storia è un objet trouvé, un plot di cui abbiamo fatto cadere solo i dettagli morbosi. Il corpo di Marta con le sua raffinate mobilità e il mio lavoro di scrittura coreografica cercano di trasformare la materia del dato biografico, di sublimarla nel senso che la chimica dà a questa parola. Questo processo – reso possibile dalla capacità del corpo di essere allo stesso tempo molto specifico ed individuale ma anche una superficie sulla quale proiettiamo noi stessi, per analogia o per contrasto – ha reso la storia di Marta una trama piena di porosità, di luoghi in cui sia possibile rifletterci.
La vita di Marta è calata in una dimensione culturale legata all’Italia e ad un certo periodo della nostra storia collettiva. Lo spettacolo, che procede per indizi e presagi, suggerisce allo spettatore di inserire lo sguardo in una cornice più ampia, che ha un chiaro sapore politico. Gli anni di una vita, quella di Marta o la nostra – gli anni fatti di amori che finiscono, di morti, di danze, di letture, di viaggi, di traslochi, di notiziari, di canzoni – gli anni sono sempre pervasi e intrisi di politica. È la dimensione politica del nostro quotidiano – degli oggetti che tocchiamo, delle relazioni che intessiamo o distruggiamo, delle parole che pronunciamo – che, consapevolmente o no, rende le nostre storie tutte potenzialmente rappresentative di un “noi”.
In scena questa volta non ci sei tu, il racconto è affidato al corpo e alla voce di Marta Ciappina, perché hai scelto di lavorare con lei?
MD’A – Per molte ragioni, la prima delle quali è l’amore che mi lega a lei. Un amore fraterno, che in un primo tempo ho voluto difendere dai pericoli della sala prove. 4 anni fa Marta mi ha chiesto scrivere un solo per lei. Io ho chiesto di attendere l’arrivo di un’idea prima di procedere nel caos.
Qualche tempo dopo, nel marzo del 2021, stavamo lavorando a SAGA, uno spettacolo di gruppo di cui lei era interprete. Eravamo a Bouxwiller, un piccolo paese dell’Alsazia, quando – come ci piace dire in intimità – abbiamo entrambi visto l’aurora boreale. Marta si stava annodando i capelli sulle note di C’est la vie di Achille Lauro, pronta a rispondere a un richiamo del passato e a danzarlo: è letteralmente precipitata un’immagine e da lì siamo partiti.
Marta è un unicum nel panorama della danza: la sua è una grammatica rigorosa, personale, costruita pazientemente e affiancata da un lavoro di studio e pedagogia che ne fa una delle migliori danzatrici della scena italiana. La sua perizia, però, è sempre al servizio di una qualche sotterranea e turbolenta forma di memoria. Marta riesce a coagulare ricordi, segreti e desideri in mobilità nitide e tecniche che traboccano di vita.
Quanto c’è di Marta e quanto invece di Marco in questo affresco generazionale? Come avete messo in relazione le vostre biografie?
MD’A– Il primo giorno di prove per questo spettacolo Marta mi ha detto: io credo che tra un lavoro e l’altro di ogni autore ci sia una staffetta, e ritengo che l’eredità di cui dobbiamo prenderci cura con GLI ANNI sia quella di BEST REGARDS. BEST REGARDS è il mio ultimo solo, che io fino a quel momento ritenevo distantissimo dall’universo poetico de GLI ANNI. Eppure Marta mi ha aiutato a capire che in quel caso lavoravo attorno a una morte: un vuoto che chiedeva di essere nuovamente occupato in modo energico, creativo e non luttuoso. Anche la vita di Marta ruota attorno a una morte, dunque GLI ANNI è costruito attorno alla sua rievocazione e rielaborazione. Eppure il modo in cui gli oggetti, le azioni, i segni, le canzoni e le danze sono disposte attorno a questo evento, che come nella vita di chiunque ne abbia fatto esperienza segna un prima e un dopo, fa esplodere quel cuore centrale di dolore, mettendolo infine sullo sfondo di un aspetto più importante: il potere del tempo di plasmare i corpi, le persone, le vite.
In che modo ti sei ispirato alla scrittura di Annie Ernaux? La scrittura della Premio Nobel è una scrittura di pensiero, come l’hai tradotta in azione?
MD’A – Io e Marta conduciamo da anni una ricerca molto simile sulla relazione tra il ritmo del pensiero e il ritmo del corpo. Siamo entrambi convinti che proprio perché la danza è per sua natura ineffabile, il compito di una sala prove sia quello di circoscrivere l’indicibile con le parole, con l’articolazione di un discorso che provi sempre ad avvicinarsi per approssimazione all’oggetto di cui ci si occupa. Il nostro è un metodo che procede così: lo studio si trasforma in scrittura di istruzioni per il corpo (che sempre hanno l’odore di un romanzo); la scrittura muove il pensiero; il pensiero muove il corpo; l’osservazione del corpo genera altro discorso, che viene nuovamente scritto. Dallo studio di questo nuovo scritto sorgono nuove istruzioni che generano nuovi pensieri che generano nuovi corpi… e così via.
Nello specifico di questo spettacolo ci sono due aspetti di Annie Ernaux che ci hanno guidati: il primo è un suggerimento che lei fa al corpo quando dice che ricordare è un viaggio di andata e ritorno. Ci siamo detti che il corpo doveva comportarsi come una spola, dapprima affacciato sul presente (il pubblico, la sua presenza fisica ed emotiva), poi richiamato da un altro tempo, da un altro anno. Nel rispondere oppure nel negare la risposta a quel richiamo il corpo intraprende un viaggio e lo mette a disposizione dello sguardo dello spettatore.
Il secondo aspetto riguarda la grande lezione che Ernaux ci dà sulla manipolazione del dato biografico. Non ci è mai dato sapere quale sia il vero e quale sia il falso. Questo per noi non è un campo di disonestà o di malizia, ma anzi un’enorme possibilità generativa e creatrice. Non abbiamo nessuna responsabilità da archivisti nei confronti della nostra storia personale, quando la raccontiamo: possiamo e dobbiamo scegliere di mentire se vogliamo narrarci un futuro diverso a partire dalle rovine del nostro passato.
E poi le sue meravigliose parole sullo scrivere la vita: “Écrire la vie. Non pas ma vie, ni sa vie, ni même une vie. La vie, avec ses contenus qui sont les mêmes pour tous mais que l’on éprouve de façon individuelle: le corps, l’éducation, l’appartenance et la condition sexuelles, la trajectoire sociale, l’existence des autres, la maladie, le deuil. Je n ai pas cherché à m’écrire, à faire uvre de ma vie: je me suis servie d’elle, des événements, généralement ordinaires, qui l’ont traversée, des situations et des sentiments qu’il m’a été donné de connaître, comme d’une matière à explorer pour saisir et mettre au jour quelque chose de l’ordre d’une vérité sensible.”
I tuoi spettacoli sono sempre molto “parlati”. Quale relazione c’è tra parola e gesto? Cosa dice il linguaggio verbale che il corpo non può dire, e viceversa?
MD’A – Devo dire che molte delle caratteristiche che vengono riconosciute ai miei lavori non rispondono a pianificazioni sistemiche. Io realizzo sempre ex post se ci sono elementi ricorrenti, fil rouge. Anche in questo caso: non ho mai voluto mettere “a sistema” il mio approccio alla relazione tra voce e corpo, perché ho lavorato su questi strumenti solo in risposta a una richiesta concreta che ogni spettacolo, nelle sue specificità di volta in volta diverse, mi poneva.
Di sicuro sono sempre interessato alla frizione tra l’articolazione di parola e l’articolazione di movimento. Non mi interessa mai capire cosa una produca nell’altra dall’interno, cioè nel corpo; mi interessa invece che generi un’ambiguità, un irrisolto che lo spettatore riassume nel proprio sguardo assegnando un significato.
Ero certo che GLI ANNI sarebbe stato uno spettacolo di sola danza, se non altro perché Marta non ha alcuna esperienza con la parola usata in scena. Poi, ancora una volta, l’orizzonte della parole è comparso. Lo ha fatto proprio in virtù di quanto raccontavo prima sul rapporto tra danza e pensiero: ci siamo chiesti se non fosse giusto, ad un certo punto dello spettacolo, rivelare allo spettatore quale fosse il pensiero di un corpo che danza nel momento esatto in cui danza.
Il pensiero e la danza non si arrestano mai, sono sempre in un duetto. Pensiero e corpo “dicono” quello che possono dire nei modi in cui lo possono dire, talvolta tentando di tradursi a vicenda, talaltra ignorandosi.
Quale sentimento rappresenta meglio la tua generazione?
MD’A – È una domanda troppo grande per me.
Posso però rispondere a partire da me e Marta: noi siamo di certo persone nostalgiche. La nostra nostalgia però non è mai una palude: le colonne vertebrali si proiettano sempre verso il futuro, e il desiderio di migliorare la vita e le vite è la nostra vera stella polare.