Le illusioni perdute. Il gabbiano di Cechov | Intervista a Leonardo Lidi

Al Teatro Ariosto di Reggio Emilia il 31 marzo e il 2 aprile

29 marzo 2023

A trentaquattro anni Leonardo Lidi, piacentino classe 1988, è già considerato un astro nascente della regia, tra quelle giovani leve del teatro italiano capaci di raccogliere e rinnovare la tradizione dei padri, cercando nei grandi testi nuove chiavi di lettura, geometrie emotive e interiori che risuonino nel presente. D’altronde proprio un maestro della regia come Antonio Latella lo ha voluto prima tra gli attori del progetto Santa Estasi di ERT nel 2016 (nel ruolo di Agamennone) e poi alla Biennale di Venezia da lui diretta, dove Lidi ha vinto il bando registi under 30 con un allestimento di Spetti da Ibsen, nel quale – si legge nella motivazione “ha mostrato una sicurezza e una maturità di segno forte e interessante, esaltata nell’ultima tappa, dove affida la sua ricerca registica (per coraggio e non per debolezza) a un gruppo di attori maturi e talentuosi”. Nel giro di pochi anni ha conquistato la ribalta con allestimenti di Ibsen, Lorca, D’Annunzio e Molière, diventando protagonista di molte produzioni dei più importanti teatri italiani, tra i quali lo Stabile di Torino, dove ha cominciato la sua carriera di regista, e lo Stabile dell’Umbria, che ha prodotto La Signorina Giulia da Strindberg, spettacolo con il quale Lidi è in corsa gli Ubu di quest’anno per la miglior regia. E proprio il TSU co-produce anche la Trilogia su Čechov sulla quale l’artista è attualmente impegnato. Un viaggio nel repertorio del grande drammaturgo russo, “una trilogia su amore e dolore, in cui gli attori sono custoditi come una pietra preziosa da difendere nel teatro italiano del nostro tempo” dice Lidi, che ha appena allestito Il Gabbiano (con un cast straordinario che comprende Giordano Agrusta, Maurizio Cardillo, Ilaria Falini, Christian La Rosa, Angela Malfitano, Francesca Mazza, Orietta Notari, Tino Rossi, Massimiliano Speziani, Giuliana Vigogna) e proseguirà con Zio Vanja e Il giardino dei ciliegi. Nella sua lunga tournée Il Gabbiano (coprodotto da ERT Fondazione) sarà dal 31 marzo al 2 aprile 2023 al Teatro Ariosto di Reggio Emilia.

 

Intervista a Leonardo Lidi

 

Molti degli autori da te prediletti fino a questo momento sono grandi maestri di inizio Novecento. Come mai sei così legato a quel periodo?

Approfitto della possibilità di mettere in scena i testi dei grandi autori per pormi degli interrogativi e cercare le risposte. Io credo che non ci sia nulla di più bello di uno studio continuo quando si fa il nostro lavoro. Più che guardare a un periodo sono interessato a certi nomi, poi che molti di questi abbiano lavorato in quel periodo è quasi una coincidenza. Ibsen, Williams, Garcia Lorca, Čechov sono autori che fanno tremare i polsi. Però per me è molto bello non essere alla loro altezza, dover scalare ogni volta l’Everest.

 

Perché Čechov, adesso?

Intanto mi interessava Il Gabbiano, perché è un testo che s’interroga sulla forma giusta per avvicinarsi allo spettatore del tempo. Čechov lo ha scritto in un periodo in cui in Russia c’è un forte movimento simbolista, e lo scrittore questo movimento lo evoca anche in scena, nel monologo di Nina, fatto di metafore astrattismi. C’è una contrapposizione tra forme, tra quel simbolismo appunto, e una parte ben più realistica, fatta di personaggi tra personaggi e storie, che poi prenderà il sopravvento nei testi successivi. Io credo che in questo momento interrogarsi sulla forma teatrale più adatta per parlare agli spettatori sia importante, ancora di più dopo il periodo del lockdown, e il drammaturgo russo ci aiuta a interrogarci in questo senso. Quanto all’intera trilogia, io credo che se sei un regista con una sensibilità alta verso i sentimenti, la domanda non è più perché Čechov, ma perché no?! Aggiungo però anche un’altra cosa. Fino a questo momento ho lavorato con alcuni grandi classici mettendoci mano, imprimendo un mio punto di vista nella riscrittura. Con Čechov provo per la prima volta a non farlo, a portare in scena i testi nella loro interezza, costringendomi a un confronto irriducibile con la sua altezza.

 

Nei tuoi spettacoli, come in questo Gabbiano, ci sono sempre attori e attrici straordinari. Cosa cerchi da loro? Come vi incontrate, come vi scegliete? Come li scegli?

A teatro. Nel senso che io sono prima di tutto uno spettatore. Tutte le sere che posso vado a teatro, per cui gli attori li conosco perché li vedo in scena. In questo spettacolo lavoro con artisti che provengono da tanti percorsi diversi, alcuni più preparati e con molta più esperienza di me e altri con cui invece ho iniziato il mio percorso, come Christian La Rosa e Giuliana Vigogna con cui peraltro ho anche recitato in Santa Estasi nel 2016. Alcuni vengono dalla Scuola di Genova altri dal magistero di Castri, Santagata, de Berardinis. Non solo esperienze diverse ma anche età diverse. E tutti si incontrano nel nome di Čechov. Io trovo questa cosa bellissima. La regia in questo Gabbiano è il cast. Come dicevo, per fare Čechov non ho puntato su nessun punto di vista eccentrico, ma su una scelta precisissima degli interpreti, perché i suoi testi richiedono attori che non vogliano prevalere sui personaggi. Per questo ci ho messo tantissimo a scegliere questo questo gruppo di attori, tutti di gran talento e grande cuore.

 

Quale senso attribuisci al fare regia? Ti senti più un erede o un traditore?

Mi sento un costruttore. Non penso che la provocazione, in questo momento, sia il binario più fertile. Credo invece ci sia bisogno di costruire. Non mi sento neppure un erede, perché un’eredità richiede spalle più larghe delle mie. Sono solo un regista che ogni mattina si sveglia e la prima cosa a cui pensa è il suo prossimo spettacolo, uno che va avanti nel suo percorso di studio sugli autori. Perché questo mi sento: uno studioso e un regista.