- Data di pubblicazione
- 01/02/2022
- Ultima modifica
- 01/02/2022
Ballare insieme. Deflorian/Tagliarini portano in scena Ginger e Fred
Dal 3 al 6 febbraio all’Arena del Sole di Bologna
Cosa significa essere artisti? E cosa significa essere artisti in due, in coppia? Attorno a queste domande si annodano i molti fili di Avremo ancora l’occasione di ballare insieme, nuovo spettacolo di Deflorian/Tagliarini, coppia d’arte che prosegue nel suo viaggio teatrale nel cinema italiano a caccia di caratteri e storie del Novecento che hanno in qualche modo segnato un’epoca e il suo immaginario, generando il futuro che abitiamo noi come presente. Archiviato il dittico dedicato al Deserto Rosso di Antonioni, già in scena all’Arena del Sole di Bologna nel 2018, Daria Deflorian e Antonio Tagliarini guardano adesso a Ginger e Fred, opera cult di Federico Fellini con Giulietta Masina e Marcello Mastroianni, che racconta la vicenda di Pippo e Amelia, due artisti conosciuti per la loro imitazione della famosa coppia Ginger Rogers e Fred Astaire ma che non hanno mai sfiorato il successo, e che tornano dopo molti anni a esibirsi in pubblico in uno show televisivo natalizio anni ottanta traboccante di volgarità. Attrice e autrice l’una, danzatore e coreografo l’altro, Daria e Antonio, drammaturghi e registi del progetto, oltre che interpreti, hanno chiamato a raccolta un gruppo di straordinari attori e attrici per realizzare un’opera corale che sta girando nei maggiori teatri d’Europa, dall’Argentina di Roma all’Odeon di Parigi. Lo si vedrà a Bologna (ERT/Fondazione è tra i coproduttori) dal 3 al 6 febbraio nella sala grande dell’Arena del Sole, accompagnato da due appuntamenti collaterali: un incontro con gli artisti in Cineteca, il 4 febbraio alle 17, seguito dalla proiezione del film di Fellini, e la presentazione, il 5 febbraio alle 17.30 nel foyer del teatro, del secondo numero de La Falena, la rivista edita dal Metastasio di Prato che comprende peraltro un approfondimento sulla compagnia.
Nello spazio rovesciato di un palcoscenico, di cui il pubblico vede il retro con relativi camerini e sipario ancora chiuso, si avvicendano sei attori e attrici, Deflorian e Tagliarini, Francesco Alberici, Martina Badiluzzi, Monica Demuru ed Emanuele Valenti, tre coppie intente a “provare” uno spettacolo. “Provare” nel senso in cui lo intendono Deflorian/Tagliarini: incontrarsi, porsi domande su su Fellini, su Masina e Mastroianni, riflettere sulla distanza tra sé come sé e le figure che si osservano, tentare qualche passo di danza, agganciare a fotogrammi del film pezzi di memoria personale, riflessioni, digressioni. Lo spettacolo diventa così una ballata dedicata a tutti gli artisti e le artiste, al loro desiderio di essere un altro, “alla loro determinazione a giocare per tutta la vita, a cadere ad ogni ciak, a mettere nei dettagli insensati la loro biografia più segreta, al loro smascherarsi intenzionalmente senza intenzione”, come detto da Fellini parlando del mestiere dell’attore.
“Come in Quasi niente – scrive la compagnia – continua la nostra ricerca sul filo rosso che unisce le generazioni. In scena ci sono, infatti, una coppia di trentenni, una di quarantacinquenni, una di sessantenni, anche se la coppia è una sola, nello scorrere degli anni. Ognuno, ognuna può dialogare anche con quello che è stato e sarà in un altro momento della vita. Avanti e indietro nel tempo, come nei sogni, così importanti per il grande regista, che li ha disegnati fino alla fine dei suoi giorni. La scena del film che ci ha agganciato è il blackout durante il programma televisivo. Nel film, infatti, appena Amelia e Pippo cominciano a danzare, un blackout fa piombare lo studio in un buio sconcertante. Pippo cerca di convincere Amelia ad andarsene, mentre nell’oscurità tra i due si crea una strana, profonda intimità. ‘Chissà che cosa può cominciare da questa fuga?’ sussurra Mastroianni a Giulietta mentre stanno per abbandonare lo show dove non si sentono rappresentati. E questo buio, questo vuoto, questa sospensione diventano per noi un’occasione di osservare l’altro lato del nostro bisogno forsennato di farci vedere. Il grande vantaggio per Federico Fellini è stato quello di cogliere la “mutazione antropologica dell’arte’ nel momento in cui stava accadendo, mutazione oggi ampiamente metabolizzata e fin troppo interiorizzata dagli artisti: il progressivo identificarsi tra atto creativo e merce. E se per noi la scelta è quella di non ambientare il nostro lavoro in uno studio televisivo è perché, nel frattempo, quella televisione raccontata da Fellini è diventata uno dei tanti ologrammi della comunicazione globale. In un certo senso la televisione è ovunque e in nessun luogo. Anzi, il luogo principale di questa alienazione siamo noi stessi, in gran parte figli della sua lingua e del suo immaginario. Quel residuo di purezza che nei due personaggi felliniani si trasforma in rivolta, sia pure in rivolta impotente e pronta a sciogliersi a contatto con il calore del pubblico, si è volatilizzato in una pratica artistica che non riconosce né un aldilà, né un nemico”.