Frankenstein (a love story). Intervista a Ilenia Caleo

I Motus al debutto il 13 e 14 ottbre all'Arena del Sole di Bologna

08 ottobre 2023

Dopo l’articolato progetto sulle Troiane di Euripide, un nuovo mito è al centro delle ricerche di Motus: il Frankenstein di Mary Shelley. Al celebre romanzo dell’autrice e filosofa britannica s’ispira il nuovo lavoro firmato da Daniela Nicolò ed Enrico Casagrande, Frankenstein (a love story), al debutto in prima assoluta all’Arena del Sole di Bologna il 13 e 14 ottobre, in apertura di stagione. In scena, insieme allo stesso Casagrande, l’attrice e performer Silvia Calderoni e l’attrice greca Alexia Sarantopoulou, mentre a firmare la drammaturgia è la studiosa Ilenia Caleo.  All’inquietante personaggio cui l’autrice ha dato vita, emblema della diversità e del pregiudizio umano, Motus si avvicina con l’intenzione di realizzare un’opera che è essa stessa un Frankenstein, distillando dal testo d’origine solo frammenti/monologhi legati alle tre esistenze, compresa quella di Mary Shelley. Come sempre, nel lavoro della compagnia riminese, i piani si moltiplicano e s’intrecciano, dentro e fuori il testo e il mito di riferimento. Stavolta il viaggio si sviluppa pericolosamente sul confine tra umano e artificiale, in una scrittura che convoca la letteratura europea, l’immaginario fantascientifico, la filosofia postumana, e tante voci tra le quali quelle inconfondibili di Donna Haraway e Ursula Le Guin, di Lynn Margulis e naturalmente di Mary Shelley. “Trattiamo il testo come una storia che contiene una storia che contiene una storia, una seppellita nel corpo dell’altra” ha spiegato Caleo, alla quale abbiamo posto qualche domanda.

 

Quale filo lega le tre esistenze delle quali avete intrecciato i destini nella vostra drammaturgia?

Victor Frankenstein, la creatura e Mary Shelley sono nel lavoro tre incarnazioni della mostruosità. Siamo partite da un nodo che riguarda la scena: il mostro – di per sé – è irrappresentabile. Altrimenti, non ci spaventerebbe. Molto più spaventoso immaginarlo che raffigurarlo. Più che condensarlo in una figura, abbiamo quindi cercato nella dimensione larga del mostruoso. I mostri proliferano sui confini, né questo né quello, negli interstizi tra le categorie. Dai margini, ci parlano. Moltə di noi – perché dissidenti sessuali, perché stranierə, perché donne*, perché marginali – sperimentano la condizione di mostruosità, che spesso prende la forma dell’esclusione, del respingimento anche violento. Mary Shelley è una figura inventata da zero, a partire dalla sua biografia e miscelando testi di autrici e miei. È il primo mostro, mostruosa è la sua immaginazione di adolescente che “inventa” la fantascienza e crea una figurazione che ancora ci parla. Mostruoso è il processo di creazione per una scrittrice che vive nella società patriarcale dell’Ottocento, un atto contro natura: “una donna che pensa dorme con i mostri”, scrive Adrienne Rich, poeta e teorica lesbica. Mostruoso è Victor Frankenstein, il pallido scienziato che rompe i confini imposti e fruga nelle pieghe della materia inanimata cercandovi la vita. È la figura più complessa, più contraddittoria, che chiama i temi della scienza, che si muove tra controllo e strumenti di liberazione, delle biotecnologie, della riproduzione. Più che un creatore prometeico, per noi è una fragile creatura di Shelley. Mostruosa la creatura, non nata ma costruita, né umano né animale, né maschio né femmina, né vivo né morto, né organico né artificiale.

A quale storia d’amore fa riferimento il sottotitolo dello spettacolo?

Molti sono i nodi d’amore che luccicano dalla materia del romanzo. L’amore di Victor per la conoscenza, che sconfina nell’ossessione: desiderio di sapere, di possedere, di governare i mondi. L’amore di Shelley per la scrittura, per l’invenzione. L’amore della creatura per la natura, mai idilliaca ma anzi estrema, dura; il suo amore per l’umanità. Amori spesso non corrisposti: la storia di fantasmi che “proprio non viene”, il blocco della scrittrice in un circolo di soli maschi; la materia che sfugge al controllo, che non obbedisce a Victor; gli umani che all’amore della creatura rispondono con la paura e la violenza. E poi l’amore tra Victor e la creatura, che diventa una forma di dipendenza, uno è il parassita dell’altro. La fuga finale in mezzo ai ghiacci, verso il Polo Nord, spazio quasi metafisico, inseguendosi, cacciandosi e insieme cercandosi, prendendosi cura uno dell’altro. Anche l’amore può generare mostri – Sara Ahmed, teorica femminista, rovescia il punto di vista, e ci mostra come nel razzismo, prima ancora dell’odio, sia l’amore il collante: le comunità xenofobe si costituiscono come forma d’amore verso un “noi” identitario, fittizio, che esclude e rifiuta tutte le alterità. Amore e violenza sono molto vicine, gli esempi di violenza maschile contro le donne* ce lo raccontano quotidianamente.

L’irrompere del “mostruoso”, del meraviglioso, cosa svela oggi ?

Per me c’è una forza politica, trasformativa dell’immaginazione. L’utopia è l’immaginazione applicata al politico, e sta vicina vicina alla fantascienza come genere letterario. Immaginare altri mondi, perché quello che viviamo non è un destino immutabile. Il tema della mostruosità come figurazione che dice di noi, dei nostri corpi, delle nostre (dis)identità, delle nostre sessualità è stato elaborato dal pensiero femminista, queer e trans. “Mostro” è anche infatti una parola con cui siamo appellatə – parola d’offesa per dire esseri contro natura, artificiali, illegittimi. Mostruosa è la riproduzione se praticata fuori dalla famiglia eterosessuale. Mostruosa l’autodeterminazione dei nostri corpi, e come vogliamo essere nominate. Mostruoso l’hackeraggio delle tecnologie. Mostruosi – per tradizione – sono stati descritti i corpi delle donne, perché mutevoli, oscuri, pericolosi, ingovernabili. Ecco che per certe soggettività i mostri sono diventati alleati: siamo assemblaggi, creature ibride e in continua trasformazione. La purezza la lasciamo ai nazisti.
Nel testo si sentono voci di molte studiose e scrittrici contemporanee. Come sono state scelte? Quali temi e istanze fanno risuonare o arretrare rispetto all’originale di Shelley?

Lynn Margulis, biologa straordinariamente innovativa e inizialmente inascoltata perché appunto scienziata donna, elabora una diversa ipotesi sull’evoluzione: non specializzazione progressiva di organi degli individui, ma fusione di organismi diversi nella simbiosi. La vita che Margulis vede è un continuo assemblaggio di corpi diversi ed eterogenei, come quelli che compongono la creatura – le sue parole diventano nella voce di Shelley delle visioni, quasi delle allucinazioni di un mondo simbiotico e interconnesso. Susan Stryker, teorica e attivista trans, ci parla appunto del corpo trans come di un corpo mostruoso. Jeanette Winterson, scrittrice lesbica inglese, ha inventato per noi una Mary Shelley visionaria, carnale, desiderante nelle notti umide sulla riva del lago di Cologny. Donna Haraway, filosofa e scienziata, nostro nume tutelare nel mescolare pensiero scientifico e fabulazione, ha generato, nutrito e diffuso mostri di tutti i tipi, creaturine, critters, farfalle monarca, polpi tentacolari, cyborg, presenze che infestano questo mondo danneggiato e con cui dovremmo imparare a convivere. Sylvia Plath, poeta, illumina l’esperienza della maternità come qualcosa di alieno, straniante, raggelato e tutto sommato “innaturale”. Sara De Simone, studiosa di letteratura, ci offre una chiave femminista per aprire il testo: la “mostruosa progenie” è sia la creatura generata da Frankenstein che il romanzo “partorito” da Shelley. Jack Halberstam, filosofo trans, legge la narrativa gotica come una tecnologia della soggettività, che produce i soggetti devianti a partire dai quali si definiscono il normale, il sano e il puro. Con Frankenstein, ci dice, è il corpo che diventa il luogo della paura, quelle corporeità disordinate, estranee alle definizioni. Ursula Le Guin, scrittrice femminista di fantascienza, inventa mondi, e il viaggio tra i ghiacci dei due personaggi di La mano sinistra delle tenebre è il modello per la fuga che aggroviglia Frankenstein e la creatura, in un nodo di ghiacciai, paure, elementi naturali e tensione omoerotica che sconvolge le identità. “Se la natura è ingiusta, cambiamola!”, ci esorta il Manifesto Xenofemminista. Anche Mary Shelley, mi sembra, continua a urlarlo. A noi almeno risuona così.