- Data di pubblicazione
- 11/04/2023
- Ultima modifica
- 11/04/2023
L’estinzione della razza umana. Intervista a Emanuele Aldrovandi
Al Teatro delle Moline di Bologna dall’11 al 16 aprile
È una delle penne più brillanti della nuova generazione di autori, Emanuele Aldrovandi. Ma il drammaturgo di Reggio Emilia, classe 1985, è in realtà anche regista, uomo di teatro a tutto tondo che la scena la conosce nelle sue diverse prospettive. A poco più di trentacinque anni sono già una quindicina i testi che ha dato alle stampe e che sono stati messi in scena da lui o da altri. Le sue opere sono peraltro tradotte, messe in scena e pubblicate in inglese, tedesco, francese, spagnolo, polacco, ceco, sloveno e catalano. Altrettanto numerosi i premi vinti, le menzioni e le segnalazioni speciali. L’ultimo, in ordine di tempo, ha a che fare con il cinema. Aldrovandi si è infatti aggiudicato il prestigioso Nastro d’argento per il miglior cortometraggio italiano per Bataclan. Ma rimane il teatro, almeno per ora, la sua casa elettiva. I suoi testi, per i quali si è aggiudicato tantissimi riconoscimenti, tra cui il Riccione-Tondelli, Il Premio Nazionale Luigi Pirandello, il Premio Hystrio e il Mario Fratti Award, viaggiano sul confine sottile tra ironia e realismo inseguendo soprattutto il gusto della storia avvincente, scritta con cura, con personaggi complessi e tratteggiati nel dettaglio. Nel suo ultimo lavoro, L’estinzione della razza umana (testo selezionato da Eurodram 2022), presentato in anteprima radiofonica su Rai Radio 3 all’interno di PRESENTE/FUTURO Nuove scritture per la scena italiana, racconta in chiave tragicomica, tra ironia, lucidità e grottesco surrealismo, quello che abbiamo vissuto negli ultimi due anni di pandemia. In un mondo dal ritmo frenetico, l’arrivo di uno strano virus che trasforma le persone in tacchini costringe i personaggi in scena, e gli spettatori in sala, a porsi numerose domande, condividendo paure e speranze per il domani. Lo vedremo in scena al Teatro delle Moline di Bologna dall’11 al 16 aprile 2023.
INTERVISTA A EMANUELE ALDROVANDI
Grottesco, ironico, surreale sono gli aggettivi che ricorrono di più di fronte ai tuoi lavori. Cosa c’è da ridere, o sorridere, in questo mondo?
Spesso non c’è niente da ridere. E proprio per questo è importante farlo. Da spettatore mi piace quando vengo spiazzato, quando sono portato a guadare le cose da un’angolazione inaspettata. E mi viene spontaneo farlo anche quando scrivo. Più che una scelta programmatica, credo si tratti di una predisposizione caratteriale: a me piacere parlare solo di argomenti sui quali non so neanch’io fino in fondo come la penso. Scrivere è un modo per andare in profondità a domande alle quali non so rispondere. Per farlo spingo tutto alle estreme conseguenze e il risultato, spesso, è la deformazione ironica o il paradosso. Ma appunto, è il risultato di un processo. Non scrivo mai battute “per far ridere”, anzi credo che nei miei testi si rida quasi sempre per cose che di solito non fanno ridere. E questo mi piace, perché mi illudo che attraverso un momento “appagante” gli spettatori siano portati a riflettere. E questo ha soprattutto un valore civile e politico.
L’ingranaggio perfetto dei dialoghi fa di te un drammaturgo d’altri tempi. Da chi hai imparato? Quali sono stati i tuoi riferimenti?
A volte sembra che scrivere dialoghi, interpretare personaggi o dirigere preoccupandosi di cosa si sta raccontando al pubblico, siano cose vecchie. E di sicuro possono esserlo, perché se ne vedono ancora tanti (troppi) di allestimenti polverosi di certi classici che ti viene da dire “Ma davvero, ma non vi siete accorti che abbiamo cambiato secolo?”.
Ma se la reazione a quel tipo di teatro sono autori che non sanno scrivere dialoghi e far funzionare strutture complesse e quindi sono obbligati a de-strutturare sempre (per non essere smascherati), attori che non sono in grado di sembrare credibili quando “fanno finta di essere qualcun altro” e quindi sono condannati a scimmiottare sempre se stessi o a “giocare con la voce” e registi che non sanno dare indicazioni quindi sparano i controluce a caso o fanno partire le canzonette pop per far finta di aver avuto delle “idee registiche”, beh, allora abbiamo un problema.
Io l’ho imparato prima in Accademia e poi facendo tanta gavetta, come funzionano le strutture drammaturgiche e come si scrivono i dialoghi, e cerco di usare queste competenze per raccontare storie nuove, che non hanno niente a che fare con gli “altri tempi” del teatro borghese e polveroso, ma neanche con gli ultimi reflussi di certe sperimentazioni tardo-novecentesche, che a me adesso sembrano quasi teatro amatoriale.
Dopo aver visto uno spettacolo che ovviamente non posso citare, l’altra sera una mia amica attrice ha detto: “Na bella innovazione, ogni tanto, sarebbe anche recità bene!”.
Vale anche per la scrittura. Questo non vuol dire che io ci riesca – non posso certo dirmelo da solo – però ti assicuro che ci provo.
Qual è stata la tua fonte per l’Estizione della razza umana? Da quale prospettiva hai osservato il mondo durante la pandemia? Che spazio hanno avuto i social, per esempio?
Quando ho iniziato a pensare al testo, a gennaio 2020, ero appena diventato padre e mi stavo interrogando sul desiderio assurdo di generare altri esseri umani in un mondo che probabilmente non arriverà al 2050. Volevo scriverne attraverso personaggi che viaggiavano per il mondo, ma poi è arrivato il lockdown, io sono rimasto bloccato in casa e anche i personaggi, in un certo senso, sono finiti lì, nell’androne di un palazzo, durante una pandemia. Non volevo scrivere una cronaca del Covid – e infatti nel testo il virus è un altro – ma ho deciso di nutrirmi di ciò che stavo vivendo, prendendola come una sfida: partire dai litigi “da bar” o “da social network” – che tutti abbiamo dovuto affrontare, subire o alimentare – per andare in profondità e capire quali fossero le “visioni del mondo” sottostanti, per poi farle vivere attraverso cinque esseri umani nel periodo di passaggio all’età adulta.
Com’è nata l’idea di personaggi non umani ma tacchini?
No, in realtà in scena non ci sono tacchini. Forse uno, ma è una sorpresa. La narrazione però si basa sulla minaccia che tutti possano essere contagiati e trasformarsi.
Durante le prove, insieme agli attori, abbiamo cambiato spesso animale – a un certo punto erano anche branzini – ma poi abbiamo scelto i tacchini per una serie di rimandi e di parallelismi che però non posso dire: una metafora, appena la sveli, smette di funzionare. Se siamo stati bravi, si capirà tutto senza bisogno di spiegazioni. Ma con tante possibili interpretazioni.
A questo ci tengo molto: provare a fare spettacoli che siano facili da comprendere, ma stratificati e quindi complessi da interpretare.