Love Me. Intervista a Licia Lanera

All'Arena del Sole di Bologna fino a domenica 11 dicembre

05 dicembre 2022

Attrice, drammaturga e regista, Licia Lanera, classe 1982, è tra le artiste più applaudite e premiate della sua generazione. Il suo talento d’attrice, apprezzato anche da Luca Ronconi che la volle in scena nella sua Celestina del 2014, le è valso vari riconoscimenti, tra i quali il Premio Landieri come miglior attrice italiana giovane (2011), il Premio Eleonora Duse, il Premio Virginia Reiter e il Premio Ubu nel 2014 come migliore attrice italiana under 35. Ma Lanera non ama fare l’attrice per gli altri (l’eccezione fu appunto Ronconi), perché più di tutto insegue il suo teatro, un teatro di attori, che rifugge i dispositivi iper-contemporanei e punta tutto sulla presenza, sulla relazione, sul senso del qui e ora di corpi di fronte ad altri corpi e di testi da scorticare, vivificare. Le sue scorribande letterarie l’hanno portata dai maestri russi, Bulgakov, Cechov e Majakovskij, a Pauline Peyrade, enfant prodige della nuova drammaturgia francese, della quale ha messo in scena Con la carabina, interpretato da Danilo Giuva ed Ermelinda Nasuto, spettacolo ora in corsa ai Premi Ubu per la miglior regia e per il miglior testo straniero messo in scena in Italia. Da martedì 29 novembre a domenica 11 dicembre la rivedremo in scena con LOVE ME due pezzi di Antonio Tarantino, una produzione ERT / Teatro Nazionale, in collaborazione con Compagnia Licia Lanera. Lo spettacolo nasce dall’incontro dell’artista pugliese con la parola e la poetica di Antonio Tarantino, pittore e drammaturgo tra i più raffinati e originali degli ultimi trent’anni, scomparso nell’aprile del 2020.  Confrontandosi con la scrittura di Tarantino e riconoscendosi nei suoi toni feroci e sarcastici, Lanera, sola in scena, affronta il disincantato immaginario dell’autore, popolato da personaggi sconfitti e feriti, ma disperatamente vivi, che parlano una lingua cruda, priva di retorica, tabù e violenza.

 

Intervista a Licia Lanera

 

Love me sembra l’affresco di un mondo invisibile, quello degli stranieri condannati al ruolo di stranieri, eppure sempre sotto i nostri occhi. Hai scelto Tarantino proprio per raccontarlo o è Tarantino che ti ha guidato in questo viaggio?

Ho avuto tra le mani i testi di Tarantino, una parte dei suoi testi, per lungo tempo. Li ho letti, riletti, ma non questi che metto in scena durante Love Me. Sapevo di voler interpretare un testo di Tarantino che parlasse di ultimi, ma non avevo ancora messo a fuoco la questione degli stranieri. Poi mi è stato donato La scena, il primo dei due testi che compongono lo spettacolo,  che parla appunto di stranieri e di lavavetri. E lì ho capito che sì, di tutti gli ultimi di cui Antonio parlava nei suoi testi avrei voluto parlare proprio di loro. Quando ho avuto accesso al suo sterminato archivio di testi editi e inediti, cercavo un lato B  per questo 45 giri, e ho trovato Medea. La questione degli stranieri, che all’inizio è stata casuale, si quindi è perfettamente incastrata in una mia urgenza, accresciuta dalle letture di René Girard sul capro espiatorio, sulla violenza e il sacro.

 

Chi sarai tu in scena? Qual è il punto di vista di chi racconta la donna che fa il bagno col velo in Puglia, dell’ambulante che vende gli ombrelli per le strade di Roma o il cameriere col crocifisso d’oro falso a Barivecchia?

I due testi sono diversi perché diversi sono i punti di vista. Nel primo è quello di colui che guarda con sospetto, a volte con aggressività,  lo straniero che è lì fisicamente – in scena con me c’è Suleiman Osman – e che io chiamo all’inizio dello spettacolo il corpo del reato, il capro espiatorio, lo straniero, il nero. E proprio io incarno lo sguardo, sono il corpo,  la voce di colui che, pregno di luoghi comuni, guarda con sospetto, con orrore, con cattiveria, con imbarazzante sarcasmo il corpo dello straniero.

Nella seconda parte invece, il punto di vista è quello dello straniero, o meglio della straniera, Medea. Una straniera che si trasferisce, come quella euripidea, da un’altra terra, da una terra lontana, da una terra barbara a Corinto.  Adesso è in galera ed è una straniera contemporanea in galera e  racconta come sono diverse le leggi per gli stranieri e per gli italiani, o per lo meno per quelli del posto e per quelli che vengono da fuori. Ecco perché nel discorso non viene mai definita una città precisa, io sicuramente l’ho disegnata  attraverso  l’uso di lingue, dei dialetti – nel primo del nord e nel secondo del sud – ma  Tarantino non specifica nessuna città, proprio perché il punto di vista è quello dello straniero, della vittima, del capro.

 

Ti sei più volte definita capocomica. Cosa vuol dire oggi questa parola? Cosa fa una capocomica di più o di diverso da quello che fa un’attrice, drammaturga e regista?

Allora. capocomica. Che cosa fa di più una capocomica rispetto a una drammaturga, regista, attrice? I conti. Ecco, fa i conti una capocomica, fa i conti, fa i conti che tutto torni ai dipendenti, fa i bandi pubblici, deve vedere le carte. Io ovviamente non mi occupo in prima persona dall’amministrazione all’organizzazione, perché ci sono delle mie collaboratrici bravissime, esperte molto più di me, che fanno questo per me. Ma un capocomico o una capocomica deve sapere esattamente come si chiamano tutti i tipi di proiettori di luci che esistono, la differenza tra un par e un sagomatore, dalle cose più tecniche fino a tutte le categorie i codici Ex ENPALS, quanto sono le paghe, come si fa una busta paga, eccetera. Insomma, vuol dire interpretare quella parte imprenditoriale che adesso è diventata molto più sofisticata dei tempi di Eduardo in cui ci si faceva dare l’incasso della serata, tra un atto e l’altro, in contanti. Però  un po’ il gioco è lo stesso,  tenere l’occhio ai conti: questo vuol dire essere un capocomico oggi,  avere una propria compagnia e quindi una propria impresa. Ribadisco questa questa parola che però, ripeto, non mi piace ma comunque purtroppo è necessaria ed è necessario usarla. Questo permette una sorta di autarchia, non solo artistica, ma anche produttiva. E’ molto difficile per i più piccoli sopravvivere, anche se la mia è una compagnia sovvenzionata al Ministero ed è quindi a un livello abbastanza buono, comodo. Ma è importante preservare una sorta di indipendenza, di forza di un gruppo di cui io sono soltanto la capobanda,  più che la capocomica. Insomma intorno a me ci sono persone che remano fortissimo perché tutti i nostri lavori vadano al meglio, dalle paghe alla scenografia. Ecco io credo molto in questo, nel furgone, nei viaggi, in questo rapporto strano che si crea all’interno di una compagnia. Gli attori con cui lavoro sono quasi sempre gli stessi. Questa è  la differenza con l’essere semplicemente drammaturghi, registi e attori.

Che effetto ti fa essere candidata per la prima volta per il Premio Ubu alla regia?

La regia è il mio grande amore, è quello che più amo fare di tutti i lavori che faccio in teatro. Recitare è una cosa di cui ho necessità, perché mi serve a sfogare i nervi, mi diverte. Mi piace andare in giro in tournée ed è una cosa che mi riesce anche molto semplice fare, a cui dedico uno studio veramente miserrimo. Prendo e faccio. Vado molto a istinto. Invece la regia è qualcosa con cui fin da piccolissima ho sempre desiderato cimentarmi e  quindi spesso nei miei spettacoli, data la mia esuberanza recitativa, viene sempre notata quella e molto meno la questione registica. Quindi sono contenta che questo aspetto del mio lavoro venga riconosciuto e sono molto contenta di essere in una rosa di candidati  prestigiosa. Ambisco a vincere ovviamente il premio e non solo ad essere nella terna e voglio vincerlo. Sono molto contenta e anche molto emozionata.