Con “Pendulum” il lavoro torna al centro della scena. Intervista a Marco Martins

Il 26 e 27 gennaio all’Arena del Sole di Bologna

23 gennaio 2024

È uno degli artisti europei più vocati alla sperimentazione nell’intersezione tra i generi, dal teatro al cinema alla video-arte, ma Marco Martins, portoghese classe 1972, è noto soprattutto perché le sue opere nascono da una ricerca che coniuga indagine sui linguaggi e passione per il reale e le sue contraddizioni, senza mai cedere a una forma predefinita. Dal 2007 dirige infatti la piattaforma culturale Arena Ensemble, il cui nome indica uno spazio di combattimento, confronto e azione che resiste a tecniche specifiche o linguaggi predominanti. Il suo lavoro da regista consiste in una pratica laboratoriale che mescola riferimenti e attraversa teatro, danza, arti visive e performance attraverso la collaborazione con più artisti. Con la piattaforma Arena, Martins – artista pluripremiato a Cannes, Berlino e Venezia (e che in Italia è conosciuto in particolare per la sue collaborazioni con Michelangelo Pistoletto e con Tonino Guerra) – porta avanti un lavoro caratterizzato dall’incontro con comunità specifiche spesso emarginate, di diversi contesti geografici, dal Portogallo alla Sardegna, coinvolgendone i soggetti in lunghi processi creativi: le vite e le storie dei suoi interpreti non-attori sono infatti la base drammaturgica degli spettacoli.

Il 26 e 27 gennaio grazie al Progetto internazionale “Prospero Extended Theatre”, di cui ERT/Teatro Nazionale è partner, il pubblico dell’Arena del Sole potrà assistere a un suo spettacolo recente, Pendulum. Tema centrale dell’opera, che inaugura il Focus Lavoro, immaginato da ERT per la città di Bologna con spettacoli e attività culturali dedicati al tema, è una categoria speciale, quella dei lavoratori domestici (circa 67 milioni nel mondo), per lo più immigrati di prima o seconda generazione che vivono nelle periferie delle città in via di sviluppo e si muovono quotidianamente tra la loro casa e le case dei loro datori di lavoro. Da qui, da questo movimento, deriva infatti la scelta del titolo Pendulum.
Lo spettacolo è stato realizzato in sei mesi di lavoro condiviso con sette donne immigrate di prima o seconda generazione, tutte lavoratrici domestiche. Dall’incontro con questo gruppo di persone, con le loro storie, e in collaborazione con la scrittrice Djaimilia Pereira de Almeida, è nato il testo della pièce, che affronta il delicato tema delle relazioni familiari, portando in scena un vero e proprio confronto interculturale e intergenerazionale tra diversi modi di vivere, contesti, aspettative, sogni e vite quotidiane.

Abbiamo rivolto qualche domanda al regista per saperne di più.

Le sue creazioni coinvolgono spesso non-attori e componenti di varie comunità, com’è stato per Baralha, realizzata all’interno e con una comunità gitana ed Estaleiros, che porta in scena i lavoratori dei cantieri navali di Viana do Castelo e com’è adesso per Pendulum. Come sceglie di volta in volta le comunità con le quali lavorare? In effetti, negli ultimi 15 anni i miei spettacoli sono stati realizzati insieme a non-attori, persone appartenenti a gruppi sociali di minoranza che hanno davvero poca voce pubblica e presenza a livello artistico. Questa scelta nasce dal crescente piacere di creare opere che prendano le mosse da esperienze personali dei performer e dalla loro personale relazione con l’esercizio della creazione e della pratica artistica, ma anche e ovviamente, dal desiderio di entrare in contatto con coloro che sono, in qualche misura, nascosti e dimenticati dal mondo neo-liberale.
Ma, soprattutto, i miei spettacoli sono ancorati alla curiosità per l’altro, per differenti modi di esistere e vivere.

In che cosa si distingue il suo lavoro di ricerca sulla realtà dal genere del teatro documentario? Il lavoro di ricerca è la base del mio lavoro, il punto di partenza, ma non la destinazione finale. Comincio sempre dall’osservazione, da interviste, come in un lavoro documentaristico, ma poi il lavoro evolve in qualcos’altro, coinvolgendo molto di più del semplice materiale documentario. Musica, danza e letteratura sono una grande parte dei miei lavori. Anche se il punto di partenza è documentario, nel senso che c’è un grande lavoro di ricerca da parte mia e degli interpreti sulla loro vita professionale e personale, dal momento in cui entriamo in creazione le storie si intersecano e assumono forme biografiche ibride. Il documentario è solo una delle varie forme di espressione con cui mi confronto. Mi muovo nel confine tra la realtà e la finzione.

Da quale punto siete partiti per Pendulum, e come avete lavorato nel corso dei mesi? Il principale co-produttore dello spettacolo, Artemrede (network d’arte direttamente tradotto), un consorzio che unisce vari comuni periferici nel circondario di Lisbona, mi ha invitato a lavorare sull’idea del movimento del pendolo, e considerando che il cuore centrale del mio lavoro sono le persone e le loro storie, ho pensato alle persone che costantemente svolgono questa sorta di movimento nella vita e ho incontrato così questo fantastico gruppo di badanti immigrate.
Il lavoro svolto ad Arena dura in media sei mesi, a partire dalla scelta del cast (basata su interviste per strada) fino alla prima messa in scena. Per me è fondamentale combattere il Sistema economico di produzione del sistema teatrale in cui le creazioni hanno in media due mesi di prove. Per me non funziona.
Con il tempo ho scoperto che uno spettacolo subisce varie trasformazioni che hanno a che fare con il testo ma anche con il corpo, cambia quando iniziamo a conoscerci meglio a vicenda e quando pian piano certe storie iniziano a occupare un posto centrale nella drammaturgia dello spettacolo.

Cosa dobbiamo aspettarci di vedere in scena? Quale forma ha preso vita dal confronto con le sette collaboratrici domestiche coinvolte? Nel teatro, negli ultimi anni, ho lavorato a partire da e con specifiche comunità considerate particolarmente fragili o precarie. In un certo senso la storia di queste sette donne è una storia eroica non raccontata, una sorta di epopea.
I miei cast sono il motore di ciò che troverete in scena. Parto dal loro rapporto con il mondo per raccontarlo, interferire e ricostruirlo ripetutamente.