- Data di pubblicazione
- 01/02/2018
- Ultima modifica
- 04/02/2019
L’abisso di Davide Enia
Una lunga tournée in regione per lo scrittore, drammaturgo e attore siciliano
Da quell’”Italia Brasile 3-2″ scritto, interpretato e diretto a soli 28 anni, che gli valse il Premio Speciale Ubu del 2003, Davide Enia ha fatto molta strada, non solo come drammaturgo e attore, ma anche come scrittore, macinando riconoscimenti in Italia e all’estero. Ha vinto il Premio Hystrio e il Premio Eti, il Premio Riccione e il Premio Gassman, e tra molti altri, con l’edizione francese di “Così in terra” ha vinto anche il Prix du Premier Roman Etranger e il Prix Brignoles come miglior romanzo straniero dell’anno nel 2016. Adesso, con il suo “Appunti per un naufragio” pubblicato da Sellerio, l’artista siciliano, che della sua terra ha fatto irrinunciabile laboratorio linguistico e di pensiero, ha appena sbancato al Premio Mondello, vincendo Il Mondello Giovani e il Supermondello. Il suo nuovo lavoro teatrale, prodotto dal Teatro di Roma, il Teatro Biondo di Palermo e Accademia Perduta/Romagna Teatri, è tratto appunto da questo secondo romanzo dello scrittore. In una lunga tounée in regione iniziata a dicembre, lo spettacolo sarà nei prossimi giorni al Teatro Arena del Sole di Bologna (7-10 febbraio), al Teatro Galli di Rimini (17 febbraio), al Teatro Goldoni di Bagnacavallo (18 febbraio), al Teatro Diego Fabbri (19 febbraio). In aprile invece lo troveremo il 3 e 4 al Teatro Cavallerizza di Reggio Emilia e il 6 al Teatro al Parco di Parma.
L’Abisso s’intitola, quello del Mediterraneo che ingoia i migranti, e quello interiore di un uomo di mare che racconta e si racconta. D’altronde lo strumento di Enia, palermitano e interprete di se stesso, è sempre stato il cunto, riscoperto stavolta per affrontare la tragedia degli sbarchi sulle coste del mediterraneo, in presa diretta da Lampedusa. Con le musiche scritte ed eseguite in scena da Giulio Barocchieri, Enia racconta un’epopea di eroi contemporanei tra vita e morte, che diventa metafora di un naufragio individuale e collettivo al crocevia tra due mondi, cercando la più precisa asciuttezza di parole gesti e ritmi, per evitare di spettacolarizzare la tragedia e lasciare che a parlare sia sempre e solo lo stato emotivo che ha generato il lavoro, la condizione del sentimento verso una tragedia vista con i propri occhi e la sua indicibilità. “Il primo sbarco – racconta l’artista – l’ho visto a Lampedusa assieme a mio padre. Approdarono al molo in tantissimi, ragazzi e bambine, per lo più. Io ero senza parole. Era la Storia quella che ci era accaduta davanti. La Storia che si studia nei libri e che riempie le pellicole dei film e dei documentari”. Enia ha trascorso molto tempo sull’isola per dialogare con i testimoni diretti: i pescatori e il personale della Guardia Costiera, i residenti e i medici, i volontari e i sommozzatori. Notando una novità importante, rispetto agli studi che aveva giù condotto sul tema: si parlava in dialetto, “si nominavano i sentimenti e le angosce, le speranze e i traumi secondo la lingua della culla, usandone suoni e simboli. In più, ero in grado di comprendere i silenzi tra le sillabe, il vuoto improvviso che frantumava la frase consegnando il senso a una oltranza indicibile. In questa assenza di parole, in fondo, ci sono cresciuto. Nel Sud, lo sguardo e il gesto sono narrativi e, in Sicilia, ‘a megghiu parola è chìdda ca ‘un si dice, la miglior parola è quella che non si pronuncia”.